Okinawa: Tropico giapponese
Sembrano i
Caraibi, ma siamo a Okinawa, nell'arcipelago giapponese delle Ryukyu.
Centosessanta isole (solo 49 abitate) alla stessa latitudine della
Florida. Fatte di acque cristalline, giungla, spiagge bianche, foresta
primaria. E una superba barriera corallina.
Jeans, maglietta, scarpe da ginnastica. Sopra, un lindo grembiule azzurro.
Kio Seisho
è un’arzilla vecchietta, che serve con efficienza e gentilezza i
clienti nel suo piccolo store. Vende di tutto: acqua, biscotti, latte,
riso, pesce e anche vestiti. Magra, volto con un reticolo di finissime
rughe, vanta la bellezza di 95 anni.
Vive a Bise, piccolo paese sulla costa nord dell’isola di Okinawa, in
Giappone.
“Il mio segreto? Non ho mai smesso di lavorare e vivo in un luogo
bellissimo, su questa spiaggia di sabbia e corallo. La mia casa è
proprio dietro al negozio. Costruita secondo i principi del feng shui, è
nascosta tra gli alberi di fukugi (garcinia), che noi chiamiamo pianta
della felicità”. Figli, nipoti e pronipoti vivono nel paese vicino e
vengono spesso a trovarla. “Ma io preferisco stare da sola. Ho tanti
amici e amo la mia libertà”.
L’elisir di lunga vita? Il suo segreto è custodito qui
E si trova nelle
Ryukyu, arcipelago che prende anche il nome dalla
sua isola principale, Okinawa, sgranato come una collana tra
Oceano Pacifico e
Mar Cinese Orientale, più vicino a
Taiwan che a
Tokyo:
160 isole, solo 49 abitate, che disegnano un Giappone unico,
incontaminato e, soprattutto, tropicale. Alla stessa latitudine della
Florida, ne condivide la bellezza dei paesaggi, fatti di
acque
cristalline, spiagge candide ombreggiate da palme e mangrovie, foresta
primaria. Con una superba barriera corallina, tra le più belle al mondo. E un clima formidabile: gli inverni sono miti e la temperatura media del mare è di 25 gradi.
“Siamo fatti anche noi della stessa materia di cui son fatti i sogni;
e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve
vita”. E se
William Shakespeare avesse torto? Se l’esistenza potesse avere una durata se non eterna, almeno molto più lunga? Di certo è che in q
ueste bellissime isole tropicali, fatte di corallo e di vulcani,
i suoi abitanti riescono a stare al passo con il tempo tanto che, fin
dall’antichità, i cinesi le chiamavano Terra degli Immortali.
Qui
la durata media della vita è di 81,2 anni e i centenari sono circa il
20 per cento di una popolazione che sfiora il milione e mezzo.
Le malattie cardiovascolari sono ridotte dell’80 per cento rispetto
all’Occidente, i tumori sono il 40 per cento in meno, e perfino
l’osteoporosi è inferiore al resto del mondo.
Tutti i segreti dell’alga konbu
Qui la morte sembra si sia dimenticata di passare.
Il
segreto? È racchiuso in una parola, ishokudoghen, ovvero, il cibo come
medicina: salute e longevità derivano dal nutrire il corpo di cose
buone. Così si mangia riso, ma molto meno che nel resto del
Giappone; invece, si consuma il doppio del pesce. E poi tanta frutta,
verdura, soia e, soprattutto, l
’alga konbu (kelp), bruna e ricca di minerali, raccomandata dai nutrizionisti di tutto il mondo per i suoi benefici sulla salute.
Ma c’è di più. Un altro termine usato per spiegare ciò che accade a
Okinawa è yuimaru: indica il senso di appartenenza, la consapevolezza di essere ancora importanti per la famiglia e la società, la voglia di vivere e divertirsi. Un caso esemplare, quello degli anziani delle Ryukyu, citato dall’oncologo
Umberto Veronesi in
Longevità (Bollati Boringhieri), uno dei suoi ultimi libri. “
Gli
ultranovantenni di queste isole vivono così bene e a lungo perché non
smettono di lavorare e praticano le arti marziali, sono rispettati e
onorati. E un senso di profonda solidarietà sociale fa sì che non manchi assistenza e aiuto anche quando vivono da soli nei villaggi”.
Naha, città tranquilla a misura d’uomo
Un luogo a parte, con una storia a parte. Abitate anticamente da genti affini ai cinesi, che parlavano un dialetto giapponese,
le Ryukyu seicento anni fa erano un regno indipendente che professava buddhismo e feng shui. Nel 1609 furono conquistate dal clan giapponese
Shimazu, per poi essere annesse definitivamente al Giappone solo nel 1879 come
Prefettura di Okinawa.
La sensazione di trovarsi in un posto lontano anni luce dalla frenesia,
dal formalismo e dalla congestione del resto del Paese la si percepisce
appena si arriva a
Naha, la città principale sull’isola di
Okinawa. Qualche raro grattacielo, strade poco trafficate, un grande
porto da dove partono i traghetti per le isole dell’arcipelago, un’unica monorotaia sopraelevata, la
You Rail,
di 13 chilometri, che arriva fino all’aeroporto. Una città a misura
d’uomo (supera di poco i 300 mila abitanti), con tanta gente che cammina
tranquilla per strada. I ritmi slow rivelano uno spirito isolano
proprio, amicale, aperto, e un po’ sonnolento. Basta spingersi fino al
Makishi, il mercato coperto dove si trova di tutto, per respirare dal
vivo quest’aria tutta paesana e un po’ scarmigliata. Infiniti i banchi
traboccanti di pesce, ognuno con un proprio angolo, dove i tranci
vengono tagliati a fettine per farne sushi e sashimi. Sfiora l’artistico
il modo in cui poi vengono confezionati, in mille vaschette disposte
una in fila all’altra. Impossibile resistere alla tentazione di gustarne
una, seduti a uno dei molti tavolini, godendosi il viavai continuo.
Nessuna fretta, nessuno corre. Qui si dice che, per vivere bene, si deve essere come un’amaca in una giornata senza vento…
Castelli e giardini zen
Da non perdere in città, una visita al
castello di Shurijo, sede del regno di Ryukyu risalente al XV secolo, e una passeggiata nel silenzio magico dei
giardini di Shikinaen, entrambi
patrimonio Unesco.
Una curiosità: grazie al clima subtropicale, la fioritura dei ciliegi
avviene molto in anticipo rispetto al resto del Giappone: tra gennaio e
marzo.
“Ci sentiamo un po’ diversi, unici nella nostra identità isolana, ma abbiamo tanta voglia di farci conoscere”:
Shoji Veda era un insegnante di inglese, ora fa la guida. “Perchè qui l’inglese lo parlano in pochi.
Okinawa tradizionalmente è il mare tropicale dei giapponesi.
Ma le cose stanno cambiando: arrivano sempre più viaggiatori europei,
grazie ai collegamenti aerei diretti dalle principali città dell
’Asia, che evitano il passaggio da Tokyo”.
Per toccarne con mano spontaneità e voglia di condividere merita cenare in uno dei tanti ristorantini lungo la via principale,
Kokusai street. Come
Chinuman:
pochi metri quadrati, una serie di scaffali dove lasciare le scarpe,
tante minuscole panche e tavoli, un menu che spazia da sushi e sashimi
agli spiedini di maiale, spesso presente nelle ricette locali, servito
con cotture differenti. Da assaggiare, quella in padella che
prende il nome di chanpuru e viene mescolata a uova, alghe e tofu. Ma il
vero spettacolo sono i ragazzi che suonano su un palchetto e i clienti
che, a turno, cantano. “È una rivisitazione nostrana del karaoke” spiega
Veda. “Tutti si mettono in gioco, nessuno giudica. Un modo per buttare
alle ortiche le inibizioni e per rinnovare amicizia e cameratismo”.
Protettorato degli Usa fino al 1972
Gente dolce, tranquilla, che nasconde con dignità e riserbo una
ferita mai rimarginata. Nessuno ne parla volentieri. Proprio Okinawa è
stata teatro di una delle più sanguinose battaglie della
Seconda guerra mondiale,
con un numero impressionante di vittime (più di 240 mila) tra soldati
americani e popolazione civile che, pur di non arrendersi, preferì
suicidarsi in massa. Lo scontro fu cruento, casa per casa, villaggio per
villaggio. Abitazioni, palazzi, templi: fu tutto distrutto.
Con
la resa del Giappone, le Ryukyu passarono all’amministrazione diretta
degli Stati Uniti. Tornarono al Sol Levante solo nel 1972. Una presenza ingombrante, aggravata da alcuni crimini commessi dai soldati e da incidenti aerei.
Ancora
oggi a Okinawa ci sono circa 26 mila militari (più della metà di tutte
le forze armate statunitensi in Giappone) e una trentina di basi. Una convivenza difficile, tanto che
Takeshi Onaga,
attuale governatore dell’isola, è stato eletto nel 2014 con un forte
suffragio popolare, rivendicando proprio il completo sgombero delle
basi. Una promessa che sembra impossibile da mantenere, soprattutto
vista la tensione nell’area a causa delle minacce nordcoreane. Che
rendono Okinawa, come ha dichiarato
Donald Trump: “uno dei pilastri strategici del
Pacifico”. E Tokyo, d’altronde, è d’accordo con il presidente americano.
Le spiagge più belle: Emerald e Moon
Usciti dalla città,
il modo migliore per esplorare Okinawa, lunga e stretta, è percorrere in auto la costiera occidentale da sud a nord. Sono meno di 130 chilometri, ma la strada corre sul bordo del Mar Cinese Orientale.
Qui sono concentrate le spiagge più belle, lunghe e bianchissime: Moon, Manza, Okuma, Emerald.
Il mare è azzurrissimo, le onde sono il paradiso dei surfer, la
barriera corallina tocca a tratti la riva, tanto che divers e
appassionati di snorkeling ci possono arrivare tranquillamente a nuoto. E
qui si trovano i resort più belli. Lo stile è quello della Florida:
un’infilata di grandi hotel, sabbia fine e una natura che la fa da
padrona. Ma, a differenza di
Miami, qui non c’è traffico, non ci sono rumori e mondanità, solo tanti minuscoli villaggi di pescatori. Due le soste imperdibili. A
Murasakimura, al
World Oshukai Yomitan Branch per cimentarsi con una lezione di karate.
Perché
le Ryukyu sono la patria di questa arte marziale, nata a metà del
Quattrocento durante il regno di Sho Shin, che permise l’utilizzo delle
armi solo all’esercito reale. Nobili e contadini impararono
così a combattere a mani nude (te), utilizzando gli oggetti da lavoro
(bastoni, mazze, remi, corde…). “Il karate è arte pura e stile “ spiega
l’istruttore
Kevin Chaplin, inglese del Dorset. Vive
qui da alcuni anni, ha sposato una ragazza del posto e insegna nella
World Oshukai Yomitan Brunch, la casa del karate di Okinawa
(fb:@OshukaiSohonbu). “È una filosofia di vita che si basa su virtù,
giustizia e benevolenza. E insegna solo la difesa e il contrattacco. Non
è uno sport che crea campioni fatti per attaccare e vincere”. Un’ora di
lezione non è nulla in un programma serio di preparazione, ma basta,
anche a chi non è sportivo, per portarsi via l’emozione di un sapere
profondo e antico.